Shotgun Boogie: intervista a Michele Boreggi

Shotgun Boogie, da Roma a New Orleans passando per Facebook

Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Michele Boreggi, autore di “Shotgun Boogie: New Orleans”, documentario incentrato sulla musica della città ricostruita dopo l’uragano Katrina del 2005. Ne è venuta fuori una lunga chiaccherata su cosa vuol dire distribuire un contenuto di qualità, gratuitamente su Facebook.

Per sapere di più su Shotgun Boogie leggi il post su SocialBeats!

Ciao Michele, da dove nasce questa folle idea di un romano di 33 anni di realizzare un documentario su New Orleans post-Katrina?

Quando sono arrivato a New Orleans non ero assolutamente sicuro di voler fare un documentario. E’ una città da cui sono rimasto totalmente affascinato per le sue contraddizioni. Da qui è nata l’idea di sviluppare un progetto che nella mia testa partiva da un documentario audio: avendo sempre lavorato come sound engineer mi pareva naturale partire da questo livello, non ho mai fatto video. Poi un po’ per la magia dell’America e del “sogno americano” ho conosciuto Sean, un videomaker, con cui abbiamo scelto di far partire questo progetto, che ormai ha due anni di vita.

Con chi altro hai lavorato al documentario?

Dopo pochissimo tempo si è aggiunta la ragazza di Sean, che aveva un’altra telecamera e con cui abbiamo iniziato a girare per due-tre mesi. Poi il progetto si è un po’ arenato, io ero “a mille” e cercavo di concludere, ma era tutto nuovo e nessuno aveva esperienza nell’ambito. Così si è aggiunta Hannah con il ruolo di producer, e ha destabilizzato un po’ gli equilibri: nel bene! Al termine dei primi sei mesi ero riuscito a stendere in pratica tutti gli episodi.

Shotgun Boogie: intervista a Michele Boreggi, polaroid Riz Ortolani
Una polaroid di Michele Boreggi assieme al maestro Riz Ortolani.

Da dove nasce questa vena “Do It Yourself” (DIY) di fare un documentario?

Da una necessità, decisamente! La barca era partita e sento, anche adesso, un sacco di responsabilità rispetto a tutti coloro che hanno lavorato anche gratuitamente al progetto. Non sapevo neanche montare il video, l’ho imparato lì, ma ero molto determinato. Sono stati due anni di sacrifici, avevo pochi soldi, mangiavo una volta al giorno. Dunque DIY perché non c’erano alternative. Avere tante persone sul progetto implica da una parte avere più aiuti, dall’altra anche un rallentamento.

Puoi spiegarti meglio?

Beh, quando abbiamo avuto dei finanziamenti abbiamo speso i soldi in montatori che potessero darmi una mano almeno nella fase di pre-produzione. Da una parte è stata una benedizione, dall’altra è stato necessario dover coordinare queste persone, spiegargli il da farsi, esplicitare il più possibile qual è la tua visione sul documentario, che se è la prima volta che lo fai non è facile da spiegare. Per certi versi Do It Yourself è un modo per andare più veloce, devi interfacciarti con meno persone e far partire le cose più velocemente.

Michele Boreggi al lavoro su Shotgun Boogie.
Michele Boreggi al lavoro su Shotgun Boogie.

Possiamo parlare di un rockumentary per definire il progetto? Io ho trovato diverse analogie con Sonic Highways dei Foo Fighters: l’idea di raccontare il suono di una città attraverso produttori e musicisti locali. E’ un paragone che può reggere a tuo avviso?

A livello di produzione direi di no (ride, ndr): a livello di professionalità e musicisti sicuramente si. Quello che cambia è però il budget, la produzione. C’è anche questa serie gigante della HBO che è “Treme”, il quartiere storico afroamericano di New Orleans, il primo quartiere negli States ad essere stato abitato al 100% da afroamericani, quindi anche a livello simbolico importante per gli Usa. Ma ecco, con budget estremamente elevati rispetto a Shotgun Boogie.

Avevi cercato dei finanziamenti? Li avete ottenuti?

Si, in America c’è una vasta gamma di bandi abbastanza accessibili. Qui c’è stato un grande lavoro di Hannah, la producer, per ottenere dei fondi che ci hanno aiutato per piccole cose: pagare i grafici, montatori ed altri collaboratori e spese che hanno aiutato nel progetto.

Come viene distribuito “Shotgun Boogie”?

La scelta per il momento è di distribuirlo su Facebook e YouTube. C’è una parte di noi è molto contenta, l’altra che soffre, tipo me (ride, ndr).

Distribuirlo su Facebook significa regalare, di fatto, un progetto su cui tu hai lavorato per due anni, investito dei soldi.

Certo, la grande scommessa per noi è quella di ottenere visibilità: riuscirà questo progetto che non ha gattini o cetrioli ad avere un ritorno in termini di durabilità nel tempo, investimento? Sono un po’ angosciato, faccio fatica a trovare i canali giusti.

Michele Boreggi al lavoro su Shotgun Boogie.
Michele Boreggi al lavoro su Shotgun Boogie.

Quali pensi che siano i principali vantaggi di una pubblicazione su Facebook e su Instagram? Da un parte è regalarlo, dall’altra può portarti l’attenzione di qualche società di produzione.

Certamente avere visibilità per me è arrivare alle persone a cui può interessare l’argomento, trovare potenziali partner per sviluppare ulteriori progetti e dare un futuro a questo percorso. Sui social potrei dirti diverse cose. Quando Facebook è nato potevi seguire (o meglio “spiare”) i tuoi contatti, ora con un “mi piace” alla pagina non riesci ad arrivare ai tuoi utenti se non li stimoli, se non interagisci con loro. Certo, hai gli strumenti per raggiungere tutti. Tu hai parlato di “attenzione”: su Facebook non c’è più l’attenzione, forse non c’è mai stata, io la sento forte questa mancanza. Siamo bombardati da una serie di notizie che rende molto caotica anche la nostra ricezione “intellettuale”: non è neanche facile gestirla una mole così elevata di informazioni. A me i social stanno dando la possibilità di raggiungere tante persone nel mondo. Sono molto curioso di vedere sulla mia pelle quello che arriverà.

In linea di massima credo che l’essere naturale, spontaneo, genuino nel modo in cui si posta sia una cosa che premia.

Per me, dal punto di vista di Facebook, mi pare che stia diventando sempre più difficile e complicato. A volte la sponsorizzazione sembra una lotta contro i mulini a vento. Sto facendo un lavoro da indipendente, lo metto gratuitamente sulla tua piattaforma, portandoti gente a vederla, perché non mi aiuti a promuoverlo? Così Facebook mi dà tante illusioni. Mi pare che ormai la fama tu te la debba comprare sui social: perlomeno io, con tutto il lavoro di qualità che faccio su Shotgun Boogie andiamo avanti con “mi piace” e cuoricini. Mi fa paura che il video virale sia quello più “stupido”. Prendi gli OK Go con i loro numeri: hanno fatto video capolavoro ma comunque i video più virali sono quelli con i gattini.

Si beh, d’altronde nessuno si ricorda il motivetto di un loro pezzo, ma il video si. Riguardo a questo, perché Facebook e non YouTube?

In verità Shotgun Boogie è su entrambi, ma lì seguo due strategie parallele: i video che ho su Facebook per quello che ci è dato sapere girano molto di più, grazie anche all’autoplay, ed è più facile condividerli. Su YouTube le reazioni sono molto più basse su trailer e performance che ho caricato fin qui. D’altronde, lo riconosco, io non sono un social media manager, per cui lavoro sul campo e con tentativi. Per adesso lavoro con l’idea che questo sia un investimento, anche se ogni tanto temo di esser preso in giro.

Una chicca che ti senti di consigliare a chi vuole intraprendere una strada come la tua di promozione di un progetto direttamente sui social media?

Nel mio piccolo un piano editoriale me lo sono fatto, ho una serie di teaser pronti ad essere pubblicati nei mesi successivi. Certo, una cosa è il piano che ti prepari, un’altra è quella di andare sul momento, ad occhio, capire cosa può portare maggiori reazioni. Considerando che ogni giorno c’è una novità non saprei dare una chicca in particolare. Tuttavia, quello che faccio io è rilanciare il contenuto attraverso il mio profilo personale: è da lì che arrivano i like. Quello che consiglio è avere 4-5 persone nel tuo team che riescano a ricondividere il materiale in altri ambienti e contesti.

A questo aggiungo che quando ho capito che non avrei potuto ottenere alle spalle un marchio come Netflix, Vice o HBO e ho scelto quindi di partire indipendente, ho cercato di coinvolgere realtà importanti ed attive sul territorio di New Orleans per poter contare su un loro supporto. Radio, siti specializzati a cui non volevo ci fosse il solo share del post, ma che caricassero e condividessero il video in forma nativa sulle loro pagine, creando un vero e proprio network indipendente, ma questa cosa che sembra così semplice trova un sacco di resistenze.

Il problema è che gli editori vogliono l’esclusiva, anche quando sto regalando dei contenuti.

Questo sarebbe stato per me un grande aiuto, perché mi avrebbero portato magari pochi, ma buoni fan. E questo a mio avviso sarebbe anche il modo migliore per poter portare un ritorno per tutti: uno scambio equo in cui di denaro in circolazione ce n’è poco ma le visualizzazioni sono reciproche. Quindi certo, siamo aperti a sponsorizzazioni, ma è una partita a scacchi.

Una delle cose che ho apprezzato di più sono i sottotitoli: il fatto che ci siano in italiano avvicina molto anche chi non mastica benissimo l’inglese.

Si, su questo potrei dirti che su Facebook è un po’ più complicato di quanto è disponibile su YouTube. Per ora le lingue che abbiamo caricato sono inglese, italiano e portoghese.

Attraverso la pagina Facebook ho avuto la possibilità di incontrare un fan di San Paolo che si è offerto gratuitamente di tradurlo in portoghese, ampliando ulteriormente il raggio d’azione della serie.

Certo, è un lavoro in più, perché devi mandare tanto materiale a questa persona, correggere il suo lavoro, però chiaramente è una magia dei social network.

Siamo in un’era in cui i mezzi sono a portata di mano di tutti, per cui questa cosa crea una massa enorme di contenuti sul web, ma è estremamente democratica nella fase di realizzazione. Diciamo che sono molto curioso di vedere come andrà, anche perché automaticamente quando parli di un documentario su New Orleans la gente pensa ad un doc sul blues e sul r’n’b e ti dico “che palle”. Shotgun Boogie è molto di più, è la magia di poter realizzare una cosa del genere. C’è quell’elemento di reality tv che secondo me dà qualcosa di molto di più.

Quali generi vai a toccare?

Chi lo seguirà fino alla fine vedrà che sarà controcorrente. La New Orleans raccontata va dal cantautorato blues, al country. C’è poco jazz e rhythm’n’blues, c’è più Nord America che “Stati del Sud”. Credo ci sia tanto da imparare anche da chi non è nativo del luogo, e che fa crollare delle certezze, delle sicurezze. Questa è una cosa che mi affascina molto.

A questa stagione su New Orleans pensi che ci sarà un seguito? Sempre negli States, o magari in Europa, Asia…?

Si, assolutamente. Ci sono 40 città papabili che vorrei raccontare, non solo in Usa. Partirei da Detroit per il collasso legato all’industria, come con New Orleans il collasso per l’uragano. Poi ci sarebbe L’Avana, il Sudamerica… In Europa racconterei Napoli, che penso sia una città che merita una visibilità diversa dal punto di vista culturale.

Cosa fondamentale è raccontare attraverso Shotgun Boogie con gli occhi di chi non ci è nato.

Quindi magari potrei scegliere anche Roma dal punto di vista di uno straniero, come un ragazzo del Bangladesh.

Per saperne di più:

https://www.facebook.com/ShotgunBoogieNewOrleans/

Rispondi